ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI DI ANFFAS VARESE 14/5/2022 ORE 14.30

Varese, 14/4/2022                                                                         Ai Soci Anffas Onlus di Varese

Prot.: Soci                                                                                          Al Revisore dei Conti

Ai Probiviri

 Oggetto: Convocazione assemblea dei soci.

Ai sensi dell’art. 8 e successivo art. 10 del vigente Statuto, il Consiglio Direttivo Anffas onlus di Varese convoca l’ASSEMBLEA ORDINARIA dei Soci nel giorno sabato 30 aprile 2022 ore 7.00 in prima convocazione e in SECONDA CONVOCAZIONE il giorno

 Sabato 14 maggio 2022 alle ore 14.30

 presso la Sala Borghi del Collegio De Filippi di Via Brambilla 15 a Varese (Tel: 0332 238004) (*),

con il seguente ordine del giorno:

  1. Aggiornamento rispetto a determinazioni Regione Lombardia in tema di disabilità;
  2. Lettura e approvazione Relazione di Missione 2021, Bilancio Consuntivo, Nota Integrativa e relazione Collegio dei Revisori anno 2021, Destinazione avanzo di esercizio;
  3. Elezione rappresentante e suo supplente all’ Assemblea Nazionale di Anffas onlus e ratifica rappresentante suo supplente all’Assemblea Regionale di Anffas Lombardia onlus;
  4. Aggiornamenti rispetto a percorsi ed attività Fondazione Renato Piatti/Anffas Varese;
  5. Varie ed eventuali.

Cordiali saluti.                                                                                                              IL PRESIDENTE

(Paolo Bano)

(*) Si comunica che, a norma di legge, verranno ammessi nella struttura ESCLUSIVAMENTE persone munite di Super Green Pass in corso di validità, che verrà verificato all’ingresso. Ricordiamo che è obbligatorio l’uso della mascherina FFP2 per tutta la durata dell’evento.

 

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Io sottoscritto/a ……………………………………………………………………………………delego il/la Sig./Sig.ra …………………………………………………………… a rappresentarmi con diritto di voto all’Assemblea Ordinaria dei Soci Anffas Onlus di Varese convocata per il giorno 30 aprile 2022 alle ore 7.00 in prima convocazione e per il giorno 14 maggio 2022  alle ore 14.30 in seconda convocazione presso la Sala Borghi del Collegio De Filippi di Via Brambilla 15 a Varese.

FIRMA …………………………..

Tentativi di un welfare “personalizzato”

3/5/2022 tratto da http://www.lombardiasociale.it/

Intervista a Ruggero Plebani, direttore dei Servizi per la disabilità del Comune di Lecco e coordinatore dell’Ufficio dei Piani – Distretto di Lecco, e Roberta Rigamonti, coordinatore dei Servizi area disabilità, Impresa Sociale Girasole/Gestione Associata dell’Ambito di Lecco

A cura di  e 

L’esperienza del Distretto di Lecco nella realizzazione di percorsi e progetti individuali in risposta alla diversificazione dei bisogni delle persone disabili. Non si tratta di una sperimentazione, ma di una modalità ordinaria e integrata di lavoro assunta dagli Ambiti territoriali con le risorse disponibili e dentro l’attuale contesto normativo. A dimostrazione che è comunque possibile già da oggi tentare di cambiare lo stato delle cose.

Realizzare percorsi e progetti individuali in risposta alla diversificazione dei bisogni delle persone disabili è un obiettivo riconosciuto e presente in tutte le normative in materia a partire dalla L. 328/00, ma che i territori faticano ad implementare. Nel Distretto di Lecco invece è diventata una modalità ordinaria di lavoro. Quali cambiamenti avete messo in campo per generare questo modello di welfare “personalizzato”?

A partire dal 2008 il Distretto di Lecco – composto dagli Ambiti di Bellano, Lecco e Merate (84 Comuni ca. 340.000 ab.) – ha iniziato ad assumere un ruolo di riferimento crescente nell’area delle disabilità. Qualche anno dopo, nel 2012, con l’approvazione del primo Piano di Zona Unitario dei tre Ambiti sono stati istituiti importanti livelli a supporto della programmazione sociale.
Un primo livello di carattere politico/istituzionale: l’Ufficio di Coordinamento dei Sindaci del Distretto di Lecco (prima della L. 23/2015 Consiglio di Rappresentanza dei Sindaci) costituito da Presidente e Vicepresidente con il coinvolgimento stabile dei Presidenti e Vicepresidenti dei tre Ambiti, di un rappresentante del Comune Capoluogo e della Provincia e, secondo gli argomenti trattati, anche di rappresentanti dell’ ATS Brianza e dell’ASST Lecco. Un secondo livello è rappresentato, sul piano tecnico/programmatorio, dall’Ufficio dei Piani costituito a livello distrettuale che coinvolge i referenti degli UdP territoriali. Organismi non molto grandi in termini di numerosità dei componenti, con una “geometria variabile” a seconda dei temi trattati e in grado di assumere tempestivamente gli aspetti di programmazione mantenendo una stretta relazione tra i territori e con i Comuni.
Questa struttura organizzativa ha dato vita ad un coordinamento della Rete distrettuale dei servizi per la disabilità e ha permesso di realizzare una programmazione integrata in tutta la provincia di Lecco, definendo prassi di lavoro condivise, regolamenti, criteri di spesa e tariffazione, realizzando progettazioni integrate fra servizi per interessi e affinità dei potenziali beneficiari (più che per appartenenza territoriale), coinvolgendo le realtà associative. Negli anni abbiamo investito molto sulla costruzione di una relazione solida e aperta tra pubblico e terzo settore, basata sulla convergenza di orientamenti culturali all’interno di una cornice aperta di natura istituzionale e non attraverso regole calate dall’alto, molto rispettosa delle esperienze dei singoli enti e tesa al bene comune, in una logica di corresponsabilità pubblica. Il mandato sociale è forte e chiaro e ciascun soggetto lavora per il raggiungimento di finalità condivise.

Un terzo livello importante è il Tavolo Istituzionale per l’integrazione sociosanitaria costituito da Distretto/Ambiti, ASST e ATS. Non è facile creare una vera e concreta integrazione tra sociale, sociosanitario e sanitario. Il Tavolo Istituzionale cerca convergenze generali sulle programmazioni e sulle scelte e promuove livelli operativi di confronto, creando alleanze che tengano conto delle caratteristiche, dimensioni e peculiarità di ciascun territorio. Per fare un lavoro efficace dobbiamo (ri)tradurre gli orientamenti previsti dalle normative secondo le specificità locali.
Il Tavolo Istituzionale per l’Integrazione sociosanitaria ha lavorato, ad esempio, sulla convergenza di obiettivi e orientamenti nella stesura del Protocollo per la salute mentale[1] e sulla Proposta operativa focalizzata sulle Case di Comunità[2], lavoro che ha coinvolto anche l’Ordine dei Medici, l’Ordine delle Professioni Infermieristiche, Federfarma (la Federazione nazionale dei titolari di farmacia italiani), la Coop. Cosma (Cooperativa Provinciale Medici di Medicina Generale), Confcooperative, il CSV Monza Lecco e Sondrio. Non è tutto semplice e scontato. Tale documento, anche se sottoscritto, vede ancora fatica nelle prassi di attuazione; è tuttavia importante per i nostri territori perché ha forti implicazioni sul piano della co-progettazione con tutti gli attori sociali e sociosanitari.

Tornando all’area disabilità, quali sono state le tappe successive del vostro percorso?

Nel 2013 abbiamo istituito il Servizio di Aiuto all’Inclusione (SAI), un servizio a livello provinciale di titolarità della programmazione sociale distrettuale organizzato dalla Gestione Associata dell’Ambito di Lecco/Impresa Sociale Girasole[3]. Questo servizio è nato con il compito di rispondere ad un bisogno di orientamento riguardo servizi, prestazioni, risorse più idonei alle esigenze di ciascuna singola situazione. Fin dall’inizio è emersa una domanda molto diversificata: famiglie con giovani disabili in uscita dal percorso scolastico, famiglie con minori con disabilità gravissima, persone con una propria storia personale e familiare interrotta da disabilità derivanti da eventi traumatici, persone disabili in uscita dai servizi per stanchezza e per età…
Abbiamo ancora un sistema istituzionale di risposte caratterizzato da modelli organizzativi ormai datati: servizi diurni strutturati e definiti indistintamente per fasce d’età troppo ampie (18-65 anni), regole di sistema ispirate al modello sanitario, un sistema incentrato sulle prestazioni e molto frammentato. Nel tradizionale sistema di offerta di servizi e risposte, nonostante gli sforzi di rinnovamento, il tema della personalizzazione è reso difficile da vincoli formali ed è spesso subordinato a quello dell’organizzazione in un’ottica di ottimizzazione e di ricerca di equilibri di stabilità.

Passo dopo passo, attraverso una modalità empirica di lavoro e partendo dalle sollecitazioni della nostra realtà, abbiamo iniziato a sperimentare[4] la realizzazione di percorsi e di progetti personalizzati tenendo come riferimenti l’art.14 della L. 328/00 e la Convenzione ONU 2006 che, come sappiamo, hanno avuto difficile applicazione nel contesto lombardo fino agli anni recenti. L’avvento della L. 112/2016 sul Durante – Dopo di Noi e i successivi Programmi operativi regionali hanno rappresentato per noi un fattore stimolante e facilitante, anche sul piano metodologico, se si pensa alla costituzione dell’Unità di Valutazione Multidimensionale Integrata.
Da un lato abbiamo gradualmente potenziato il SAI istituendo un’équipe di professionisti “complementari” in termini di competenze e formazione non solo professionali ma anche “esperienziali” (educatori, psicologi, assistenti sociali, con esperienze diverse anche di coordinamento di servizi). Dall’altro abbiamo iniziato a investire sulla riorganizzazione dei processi di lavoro e di strumenti finalizzati a riorientare progressivamente la prospettiva e l’approccio alla disabilità per rimettere al centro della progettazione la persona, la sua famiglia e il contesto di appartenenza nella definizione delle ipotesi di intervento, in cui i servizi svolgono una funzione complementare. In poche parole, abbiamo cercato, passo dopo passo, di flessibilizzare e personalizzare l’offerta, (ove possibile anche all’interno di un servizio strutturato), progettando percorsi meno codificati.
Accanto alle richieste di inserimento tradizionale nei servizi per la disabilità, infatti, l’esperienza di questi percorsi ha reso evidente come sia molto più rispondente ai bisogni una progettazione individualizzata di interventi integrati tra sostegno alla domiciliarità e all’inclusione territoriale, momenti di attività finalizzata presso servizi della rete, accompagnamento individuale ad occasioni di integrazione sociale, proposte educative specifiche, con l’obiettivo di lavorare su particolari aree di potenzialità, curiosità, interesse, desiderio rispettando fragilità e rileggendo i bisogni.

Potete citare qualche esempio derivante dalla strategia di flessibilizzazione?

Per noi il Progetto individuale è il “nastro della vita sul quale si dipana l’esperienza”. Tale visione serve, tra l’altro, per alimentare di energia i servizi.  Tanti percorsi che oggi costruiamo non hanno più una “sede” unica, vengono privilegiate progettualità flessibili in luoghi diversi, anche presso sedi non tradizionali (ad esempio una bottega artigiana, un atelier artistico, un circolo ricreativo, una libreria) con équipe e professionisti diversi.

Con la Comunità Sociosanitaria (CSS) Casa L’Orizzonte di Lecco (progetto integrato fra Comune/Ambito/Cooperazione e ANFFAS) abbiamo previsto fin dall’origine (2006), una modalità di accesso estremamente flessibile. Abbiamo costruito percorsi differenziati e personalizzati: residenzialità vera e propria, possibilità di rientrare in comunità di sera dopo aver frequentato durante il giorno servizi diurni o attività occupazionali, esperienze di sollievo, possibilità di fermarsi in comunità solo per qualche ora … quindi possibilità di vivere e sperimentare una convivenza, un tempo abitativo molto “aperto” e dinamico in base alle esigenze e alle peculiarità di ciascuno. Certo, questa massima disponibilità ha richiesto un grande carico organizzativo non facile da gestire, ma responsabilmente assunto dagli operatori. Il risultato è stato una grande crescita e una fidelizzazione importante da parte delle famiglie.
Oggi stiamo attraversando un’ulteriore fase evolutiva: la CSS è matura per un’evoluzione in soluzioni abitative diverse, con la realizzazione di appartamenti per il Durante / Dopo di Noi. Grazie ad una profonda conoscenza e all’avvio di una rilettura della vicenda di ognuno attraverso percorsi flessibili e personalizzati, è giunto il tempo di valorizzare e riconoscere il diritto della persona di scegliere dove, come e con chi abitare. Con la realizzazione di questi appartamenti possiamo promuovere la possibilità di scelta, tenendo conto delle esigenze specifiche in termini assistenziali e relazionali di ciascuno, differenziando l’offerta e avviando una nuova fase di vita.

L’evoluzione della CSS si inserisce nel lavoro più generale che stiamo facendo sul Dopo di Noi[5]. È necessario avviare precocemente un lavoro di allestimento delle condizioni per poter vedere l’emancipazione abitativa come un fattore naturale, esito di un’evoluzione e crescita della persona e, insieme, un successo del nucleo familiare che ha saputo accompagnare anche questo figlio più fragile verso una propria dimensione di vita. Culturalmente spostiamo l’accento sul concetto del “dopo aver abitato con noi”, indicando appunto che pensiamo ad un esito, pur tutelato, di vita propria, più autonoma come realizzazione di sé e non come necessità di fronte al venir meno delle forze di familiari anziani.  A questo compito pensiamo debbano essere riorientati i servizi, le unità d’offerta, vedendosi come attori di un percorso di reale emancipazione, sostenitori, accompagnatori e tutori, caremanager di un percorso in continua dinamica, e non come servizi definitivi, custodi del tempo. Servizi che assumono il tema del “progettare intorno all’Abitare e di progettare l’Intorno dell’abitare” investendo contemporaneamente sullo sviluppo di competenze specifiche nelle persone con disabilità e sul coinvolgimento dei contesti (il vicinato, il quartiere, i negozi, le associazioni…) perché possano essere risorsa e non ostacolo al processo di inclusione e di cittadinanza. Nel territorio provinciale sono state presentate un centinaio di istanze di  “Dopo di Noi” e gran parte di queste prevedono una progettazione con un servizio diurno, segno di un investimento  e di un’attenzione crescenti.
Uno stimolo importante viene dalle riflessioni avviate da Regione Lombardia nel confronto con ATS, ASST, enti gestori, reti associative importanti  come Ledha, Anffas, Uneba, Confcooperative.

Il budget di progetto è a supporto dei percorsi individuali. Il modo in cui viene costruito rappresenta un aspetto significativo della vostra esperienza. Riuscite anche a riconvertire alcune componenti tradizionali di spesa?

Prima di implementare l’utilizzo del budget di progetto, abbiamo lavorato sulla definizione del progetto individuale attivando un dibattito molto intenso e un percorso formativo tra referenti degli Ambiti territoriali e operatori sociali  che a vario titolo lavorano sul campo (assistenti sociali, operatori dell’assistenza educativa scolastica, educatori) e operatori sanitari per arrivare a costituire, nel 2017, sulla spinta della cornice del Dopo di Noi, l’Equipe di valutazione multidimensionale presso l’ASST di Lecco, integrata con il SAI che svolge un ruolo importante di coinvolgimento della rete di offerta e con i servizi sociali di base di tutto il territorio.
Il confronto ci ha portato a convenire su alcuni assi fondamentali. Per prima cosa, la definizione del progetto a partire da desideri e aspettative della persona e della sua famiglia. Abbiamo poi approfondito il tema della valutazione che deve essere veramente multidimensionale: deve riferirsi a ciò che effettivamente serve all’obiettivo dichiarato e deve fondarsi sull’interlocuzione con una serie di soggetti: non solo i professionisti, ma anche i contesti di vita (caregiver, famigliari, rete sociale, amici e compagni di esperienza della persona). Il SAI è uno strumento significativo perché porta un contributo importante di conoscenza della persona, sviluppa un lavoro di approfondimento e osservazione nei diversi contesti e negli ambienti frequentati raccogliendo informazioni, visioni, rappresentazioni, letture diverse che aiutano ad avere una conoscenza più reale e profonda della persona. Va posta attenzione, per esempio, anche a quale rappresentazione restituiscono i compagni di scuola, di un servizio frequentato, della società sportiva… Una lettura che non può essere solo “dall’alto” ma che assume punti di vista plurali e articolati. Per cogliere appieno le aree su cui investire, le attenzioni da prestare.

Il progetto individuale deve trovare elementi di sostenibilità e praticabilità nel tempo. Da qui l’esigenza di elaborare lo strumento del budget di progetto con il quale sostenere il percorso, in quanto concretizza le ipotesi di intervento chiarendo qual è il complesso di risorse necessarie e attivabili, in un’ottica di coprogettazione e corresponsabilità fra tutti gli attori coinvolti che hanno condiviso e fissato obiettivi, modalità, compatibilità, tempi e sostenibilità.
Il budget di progetto è dunque costituito da un insieme di risorse di provenienza diversa proporzionate tra Comune di residenza, Ambito distrettuale e persona/famiglia, e può essere integrato da ulteriori risorse di natura privata o pubblica (es. FNA Misura B2 e Misura B1, Reddito di Autonomia, risorse Fondo Dopo di Noi, ecc.). Tali risorse integrative, quando disponibili (come sappiamo possono cambiare criteri di utilizzo, importi, requisiti di accesso in base alle indicazioni nazionali o regionali), costituiscono un’opportunità che sostiene l’ente locale o la famiglia o permette  un’integrazione dell’offerta di servizi. Un progetto prevede per sua natura tempi di sviluppo graduali che possono essere subordinati all’acquisizione di competenze/abilità e condizionati dalle risorse. Anche la capacità di so-stare nei processi, nell’attesa di strumenti, di accettare gli inciampi, l’acquisizione del senso del limite e dei vincoli fanno parte dell’esperienza di maturazione e autonomia. È importante però che i Servizi pubblici imparino a “passeggiare tra le norme” vedendone la relazione con l’obiettivo, sviluppando una capacità di integrazione programmatoria, attingendo quanto serve da ognuna per sostenere l’unitarietà di un progetto di vita. Almeno in attesa di un Fondo Unico che permetta maggiori flessibilità.

Per la costruzione del budget di progetto viene periodicamente aggiornato e sottoscritto un documento a livello Distrettuale che individua destinatari, tipologie di progetti e criteri di allocazione delle risorse. L’attuale versione[6] prevede dei budget di progetto a seconda delle tipologie di intervento. Gli importi a carico del pubblico sono stati individuati tenendo come riferimento la spesa solitamente sostenuta dall’ente pubblico per consentire la frequenza di un servizio diurno tradizionale.
Parole chiave, su questo tema, sono dunque: attenzione e cura progettuali, flessibilità e appropriatezza, un intenso lavoro di accompagnamento e di presidio costante.

Si intuisce che la gestione del budget di progetto sia complessa. Con quale cornice viene disciplinato?

La realizzazione dei progetti individualizzati richiede flessibilità e “agilità” non solo in termini progettuali e di valutazione multidimensionale, ma anche in termini amministrativi. È infatti complesso sul piano amministrativo gestire un progetto che si articola per esperienze diverse, con interlocutori diversi, cooperative, associazioni ma anche privati, un progetto che viene spesso rivisto in corso d’opera anche a breve termine, per essere adattato alle esigenze ed evoluzioni della persona. L’esperienza dell’Ambito di Lecco è facilitata dall’avere una Gestione Associata dei Servizi d’Ambito tramite la costituzione dell’Impresa Sociale Girasole, società mista fra Comuni e terzo settore. L’impresa consente una gestione dinamica dei rapporti amministrativi con i diversi interlocutori sulla base di quanto previsto nel progetto individuale. La coprogettazione con il terzo settore porta indiscutibilmente un apporto di idee, flessibilità e interazioni importanti sul piano ideativo e organizzativo.

Quali sono gli apprendimenti, in particolare sul piano del coinvolgimento delle persone, delle famiglie e degli enti del terzo settore?

La modalità di lavoro che cerchiamo di adottare per il progetto individuale investe sulla corresponsabilità. Chiede un cambiamento culturale che si discosta dall’approccio e dall’ansia prestazionale. Questo cambio di paradigma richiede il coinvolgimento non solo degli operatori, dei professionisti, ma anche dei diretti interessati e delle famiglie
Stiamo investendo molto sugli aspetti della corresponsabilità e della compartecipazione sia dal punto di vista progettuale e della valutazione multidimensionale partecipata (non solo multiprofessionale), sia sull’individuazione delle risorse organizzative, umane, ed economiche. Un progetto di vita si realizza dentro la comunità nella sua articolazione di servizi, professionalità, relazioni, reti. È un processo complesso e faticoso, ma ricco e vitale. Inserire una persona con disabilità in un servizio tradizionale è molto più semplice che lavorare su un progetto co-costruito, partecipato e costruito nel territorio che ha necessariamente bisogno di un presidio costante, un’attivazione e un’attenzione costante da parte di tutti. Il progetto è un abito su misura, per una singola persona, che cambia nel tempo, con le stagioni, con il clima. È fondamentale che tutti gli attori in gioco si assumano precisi impegni.

Nel documento che regolamenta il progetto individuale e il budget di progetto, prevediamo anche la possibilità di una forma di contributo alle realtà associative che assumono una funzione di supporto alla realizzazione degli interventi. Importi di piccola entità, simbolici, che valorizzano però l’assunzione di responsabilità e di impegno. Ad esempio, il circolo che si impegna a favorire l’accesso alle proprie opportunità serali a una persona che non ha autonomie di spostamento.
Ogni progetto richiede anche di individuare un referente che si prende cura della persona con disabilità, un caremanager. Spesso è un ruolo che inizialmente viene ricoperto da un operatore del SAI o dalle assistenti sociali dei comuni di residenza della persona,  poi si valuta l’opportunità che possa essere svolto da un soggetto della rete che goda della fiducia di tutti e che possa garantire un punto di riferimento, rilettura e tenuta del processo, mantenendo una corresponsabilità e coinvolgimento di tutti coloro che si assumono un compito sottoscrivendo il progetto.

Stiamo vivendo un’esperienza interessante ma che riteniamo ancora in forte divenire. Camminando s’apre cammino, ed è importante che ogni territorio faccia proprie sperimentazioni partendo dagli elementi che lo caratterizzano. È importante che i progetti individuali, i progetti di vita orientino la programmazione e l’organizzazione dei servizi, il lavoro della scuola, le stesse famiglie che si devono spesso riposizionare. Tutti insieme dobbiamo lavorare per costruire precocemente condizioni che permettano alla persona con disabilità di affrontare le tappe di un cammino emancipativo, per liberarne energie, fare esperienza di sé, sviluppare pensieri sulla propria vita, per dare prospettiva alle famiglie. Dobbiamo però porre sempre l’attenzione a non far diventare i Progetti Individuali, i Progetti di Vita, una “nuova tipologia servizio”, attraverso l’introduzione di troppi vincoli e criteri formali, di standard gestionali perché sarebbe lo stravolgimento del senso proprio della loro ragion d’essere.

 


[1] Si veda il documento “Progetti individuali e sperimentazione del budget di progetto nell’area della salute mentale”, con riferimento all’Obiettivo del Piano di Zona 2018-2020 “Interventi e percorsi di integrazione socio-sanitaria nell’area della salute mentale ai sensi del vigente Protocollo fra Distretto di Lecco e ASST”, allegato al presente articolo.
[2] “Case di Comunità: una proposta per il territorio del Distretto di Lecco”, Tavolo Istituzionale per l’Integrazione Sociosanitaria – Distretto di Lecco, 24 novembre 2021.
[3]L’Impresa Sociale Girasole è una società mista a capitale pubblico–privato partecipata dall’Associazione dei Comuni soci, costituita da 27 Comuni dell’Ambito distrettuale di Lecco e da nove soggetti del privato sociale: cinque cooperative sociali, due consorzi e due associazioni di volontariato, https://impresasocialegirasole.org.
[4]Si veda il documento “Orientamenti territoriali nell’area dei Servizi e degli interventi rivolti alle persone con disabilità. Proposta sperimentale”, Conferenza dei Sindaci del Distretto di Lecco, settembre 2019, allegato al presente articolo.
[5] Si vedano le “Linee operative del Distretto di Lecco. Dopo aver abitato con noi”, in attuazione della DGR 3404/ 2020 Programma Operativo Regionale per la realizzazione degli interventi a favore di persone con disabilità grave – Dopo di noi – L. 112/2016, anni 2018/2019, 9 ottobre 2020.
[6] Si veda il documento “Progetti individuali e sperimentazione del budget di progetto”, con riferimento all’Obiettivo del Piano di Zona 2018-2020 “Consolidare gli interventi ai sensi dell’art. 14 L. 328/00 attraverso il progetto individuale della persona con disabilità con individuazione di budget di progetto”, allegato al presente articolo.

PERCHÉ LA FORMAZIONE DEI DOCENTI DEV’ESSERE INCLUSIVA

4/5/2022 Fonte: www.superando.it

«Nonostante la pluridecennale normativa sull’inclusione generalizzata degli alunni e delle alunne con disabilità – scrive Salvatore Nocera -, non si è avuta in Italia una parallela normativa per l’apposita formazione dei docenti disciplinari sulla pedagogia, sulla didattica generale e speciale, nonché sulla psicologia giovanile, con riguardo agli alunni e agli studenti con disabilità. Per questo sconcerta la totale mancanza di tutto ciò anche nel recente Decreto Legge sulla formazione dei docenti. Ci si augura quindi che in sede di approvazione parlamentare questa grave lacuna venga colmata»

Ha fatto molto scalpore, specie tra le Associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari il recente Decreto Legge approvato dal Governo il 21 aprile scorso [Decreto Legge 36/22, N.d.R.] sulla formazione iniziale e obbligatoria in servizio dei docenti futuri ed attuali. La Federazione FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), ad esempio, ha diramato un comunicato molto preoccupato [se ne legga anche su queste pagine, N.d.R.], invitando il Ministero a convocare immediatamente l’Osservatorio Ministeriale Permanente sull’Inclusione, per verificare come colmare i vuoti di tale importantissima riforma della scuola. Nel citato Decreto Legge, infatti, si prevede circa un anno di formazione obbligatoria dei futuri docenti e circa sei mesi per quelli già in servizio e che entreranno in ruolo nei prossimi anni. Però, non è detto quale debba essere il contenuto di questa formazione, a parte la previsione della formazione obbligatoria in servizio sulla formazione digitale e sulla didattica per il suo utilizzo a scuola.

Ora, per comprendere la totale assenza di  contenuti concernenti la pedagogia e la didattica generali e speciali, bisogna rileggere con attenzione l’interessante libro Nello specchio della scuola, pubblicato lo scorso anno dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, in cui ripercorre la storia dell’istruzione pubblica  dall’Unità d’Italia ad oggi, segnalando come la nostra scuola attuale sia rimasta “ottocentesca” nei metodi di insegnamento, nei programmi ministeriali, nella didattica e nel centralismo che, malgrado l’attribuzione dell’autonomia scolastica, rimane ancora, nella prassi e nella mentalità di molti operatori della scuola, troppo  incombente. Di qui la necessità di passare da una scuola “ottocentesca” a una scuola 4.0.
Per fare questo il ministro Bianchi segnala quali siano i punti di attacco dell’attuale sistema dell’istruzione da riformare radicalmente. Egli individua fondamentalmente due àmbiti tra i tanti, vale a dire quello della “dispersione” di troppi giovani che non raggiungono il diploma di scuola superiore (la cui percentuale è molto alta rispetto a quella degli altri Paesi europei) e quello del grave distacco tra i livelli apprenditivi del Sud rispetto a quelli del Nord d’Italia, come ben dimostrano i risultati delle deludenti prove INVALSI.
A proposito dell’urgente necessità di colmare questi due divari, Bianchi utilizza le parole «necessità di inclusione», termini ormai divenuti universalmente noti, specie dopo la ratifica con la Legge 18/09 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, e sostanzialmente  applicati all’orientamento politico di far frequentare con successo gli alunni e le alunne con disabilità nelle scuole di tutti, superando le vecchie discriminazioni determinate dalle scuole “speciali” per soli alunni con disabilità. E tuttavia nel libro, tranne che in una breve nota bibliografica, quelle parole non vengono riferite propriamente a questi alunni, ma – e lo ripeto, con molta giusta attenzione – al superamento della dispersione scolastica e al divario apprenditivo tra Sud e Nord.
Ebbene, a mio sommesso avviso, è in questa visione che occorre individuare la causa dell’assoluta omissione, nel recente Decreto Legge, di interventi formativi generalizzati, per garantire l’inclusione scolastica anche degli alunni e delle alunne con disabilità. È vero che la percentuale di questi ultimi, pari a circa il 3,05% di tutti i compagni senza disabilità, è quasi irrilevante, ma c’è il fatto che in Italia, a differenza che in quasi tutti gli altri Paesi del mondo sviluppati e in via di sviluppo, questa piccolissima percentuale di alunni è spalmata e presente in tutte le classi di tutte le scuole di ogni ordine e grado. Pertanto, mentre in altri Paesi ci si potrebbe accontentare di un aggiornamento formativo per i soli docenti delle scuole “speciali”, nel nostro Paese ciò è assolutamente impossibile e sarebbe pure illegittimo, stanti le numerose decisioni della nostra Corte Costituzionale sull’affermazione del diritto garantito allo studio di questi alunni in tutto il sistema nazionale di istruzione.

Il fatto è che purtroppo, nonostante la pluridecennale normativa sull’inclusione generalizzata degli alunni e delle alunne con disabilità, non si è avuta in Italia una parallela normativa per l’apposita formazione dei docenti disciplinari sulla pedagogia, sulla didattica generale e speciale, nonché sulla psicologia giovanile, con riguardo agli alunni e agli studenti con disabilità. E a questa disattenzione ha contribuito la massiccia attenzione, anche finanziaria, destinata alla formazione iniziale e all’immissione in ruolo dei cosiddetti “docenti di sostegno”, che ormai costituiscono quasi un quinto di tutto il corpo docente italiano.
Se dunque per la formazione sulla pedagogia e didattica speciale rivolta ai docenti disciplinari della scuola dell’infanzia e di quella primaria hanno contribuito prima le “scuole  magistrali”, ora i licei pedagogici e, da ultimo, a livello di formazione universitaria, il Decreto 249/10, per i docenti disciplinari di scuola media e superiore nulla è stato fatto, malgrado sin dal 1987 la Sentenza della Corte Costituzionale 215/87 abbia sancito il diritto pieno e incondizionato degli alunni con disabilità anche in situazione di gravità estrema, come quella intellettiva o legata ai disturbi dello spettro autistico, allo studio nelle scuole superiori. A tal fine, giustamente, il Ministero dell’Istruzione, già a seguito del Parere 348/91 del Consiglio di Stato, aveva introdotto nel nostro sistema il diritto di alunni in situazione di gravissima disabilità ad accedere alle scuole superiori anche con un semplice “attestato sui crediti formativi maturati” e allo svolgimento di un “PEI differenziato” (Piano Educativo Individualizzato), finalizzato non al diploma di maturità, ma a consentire appunto il diritto allo studio alla pari con i coetanei senza disabilità.
In tutta questa importantissima riforma continua e permanente della scuola, però, non si è tenuto presente che i docenti di scuola secondaria non avevano nel loro curriculum universitario alcuna minima informazione sulla pedagogia e sulla didattica speciale. Cosicché, malgrado la sbandierata singolarità circa la presenza nelle scuole comuni di quasi tutti gli alunni con disabilità, la qualità dell’inclusione nelle scuole secondarie italiane è rimasta generalmente molto bassa e talora inesistente. La riprova si ha nei casi, sempre più frequenti, di docenti curricolari che delegano ai colleghi  per il sostegno non solo l’insegnamento delle proprie discipline agli alunni con disabilità, ma talora – assurdamente e illegittimamente – anche la valutazione sugli apprendimenti degli stessi. Troppo spesso, infatti, pervengono ad esempio dalle scuole superiori denunce di docenti disciplinari di educazione motoria o di lingua straniera, circa la pretesa dei colleghi di qualunque disciplina di insegnare trigonometria o filosofia ecc. Una stortura, questa, conseguente purtroppo alla totale mancanza  di formazione iniziale e quasi inesistente in servizio dei docenti disciplinari sull’inclusione scolastica.

Le Associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari speravano pertanto che, dopo avere denunciato a lungo la carenza formativa iniziale  dei docenti disciplinari, fosse finalmente venuto il momento di  colmare questa gravissima abissale lacuna normativa, organizzativa e culturale. Ecco il perché dello sconcerto di cui si è detto all’inizio, dopo la lettura del Decreto Legge del 21 aprile scorso.
E tuttavia, noi, così come la Federazione FISH, pur essendo profondamente contrariati da questa gravissima omissione normativa e politica, non l’abbiamo immediatamente attaccata da un punto di vista giuridico, come invece è avvenuto ad opera di talune Associazioni con il Decreto Interministeriale sui nuovi Piani Educativi Individualizzati” [Decreto 182/20, N.d.R.], impugnati giurisdizionalmente senza alcun previo tentativo di dialogo con il Ministero. Noi, infatti, abbiamo chiesto al Ministero dell’Istruzione un’immediata riunione dell’Osservatorio sull’inclusione scolastica, anche in forza dell’articolo 4, comma 3* della citata Convenzione ONU e dell’articolo 15 del Decreto Legislativo 66/17, che impongono al Ministero e al Governo di richiedere un preventivo parere obbligatorio, ma non vincolante, alle organizzazioni di persone con disabilità maggiormente rappresentative a livello nazionale.
Siamo fiduciosi, pertanto, che, a seguito di un pacato dialogo con il Ministero e con il Governo, venga recepita la necessità di colmare le gravi lacune presenti nel Decreto Legge 36/22, e che sia lo stesso Ministero dell’Istruzione a provvedere, in sede di approvazione parlamentare del Decreto, a fare inserire gli emendamenti necessari per normalizzare la formazione obbligatoria iniziale e in servizio di tutti i docenti disciplinari, adeguando così l’impegno politico su questo fondamentale aspetto all’impegno ormai pluridecennale sulla presenza degli alunni e delle alunne con disabilità nelle nostre scuole comuni.

*Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, articolo 4, comma 3: «Nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle politiche da adottare per attuare la presente Convenzione, così come negli altri processi decisionali relativi a questioni concernenti le persone con disabilità, gli Stati Parti operano in stretta consultazione e coinvolgono attivamente le persone con disabilità, compresi i minori con disabilità, attraverso le loro organizzazioni rappresentative».

SE IL WELFARE HA POCO VALORE

6/5/2022 Fonte: www.vita.it

Quanto valore attribuiamo (noi operatori, gli amministratori locali e regionali, i ministeri e le università) al “lavoro di cura” intendendo non solo quello svolto nei confronti delle persone “malate”, ma, in maniera più estensiva l’assistenza, l’educazione, la prevenzione e promozione (per bambini, anziani, adulti, famiglie, adolescenti, giovani); il lavoro del “prendersi cura o meglio del prendersi a cuore”; insomma, in una parola, del welfare?

Ho letto con molta attenzione i recenti articoli apparsi su Vita (Sara De CarliSilvio PremoliRoberto Speziale) e non posso che concordare rispetto al grido di allarme per il rischio che molti servizi non possano più continuare ad operare.

Aggiungo che identica preoccupazione deve riguardare le professioni sanitarie in genere (medici, infermieri, OSS. Etc..) la cui insufficienza numerica da un lato e l’uguale effetto attrattivo verso la PA stanno determinando altrettante difficoltà nei servizi sociosanitari e sanitari gestiti dalle cooperative sociali e dalle altre organizzazioni del Terzo Settore.

Il problema è già stato segnalato, più volte, e non solo da noi, a Regione Lombardia, all’ANCI, ai Ministeri ancora nel corso dell’anno 2020 quando, complice la pandemia, il fenomeno di scarsità e di esodo aveva già cominciato a manifestarsi.

Come correttamente evidenziava il professor Premoli, molteplici sono i fattori che hanno portato alla situazione attuale e le responsabilità interrogano diversi attori a diversi livelli (locale, regionale, nazionale).

Voglio però soffermarmi su quella che a mio avviso è da individuare come la causa endogena, di fondo, che mina da tempo il sistema del welfare e che nella mancanza di figure trova oggi un modo dirompente per manifestarsi.

Riassumendo direi che stiamo parlando di quanto valore attribuiamo (noi operatori, gli amministratori locali e regionali, i ministeri e le università) al “lavoro di cura” intendendo non solo quello svolto nei confronti delle persone “malate”, ma, in maniera più estensiva l’assistenza, l’educazione, la prevenzione e promozione (per bambini, anziani, adulti, famiglie, adolescenti, giovani); il lavoro del “prendersi cura o meglio del prendersi a cuore”; insomma, in una parola, del welfare.

Che il nostro welfare sia sbilanciato enormemente nei trasferimenti monetari (pensioni, indennità, ma anche buoni e voucher), che non sia da tempo più adeguato a rispondere ai bisogni, che sia frammentato e puntiforme è direi un’analisi più che condivisa da molti (e che ha trovato molto spazio anche su questa rivista).

Eppure, nonostante queste analisi e denunce, quando si parla di strategie per lo sviluppo non si considera mai abbastanza – nei fatti – il sistema di welfare come uno degli elementi determinanti capace di orientare lo sviluppo verso una crescita non solo economica, ma verso una società più equa, meno diseguale, meno conflittuale e rancorosa, più partecipativa e responsabile e quindi anche più democratica.

L’enfasi viene posta su altre strategie: sostenibilità ambientale, transizione digitale, infrastrutture, trasporti, etc…(vedi PNRR). Obiettivi sicuramente importanti e assolutamente necessari, ma non sufficienti se davvero si vuole che questo Paese “cambi davvero passo” nel poter offrire e garantire uguali opportunità alle persone indipendentemente dal luogo in cui si è nati o in cui si vive, dalla ricchezza familiare, dal genere, dall’età, dalle convinzioni religiose, dalle provenienze geografiche.

Ma se i sistemi di cura e di educazione, se le attività e i servizi rivolti ai giovani, ai bambini, alle persone con disabilità, agli anziani, sono considerate poco importanti, o meno importanti di altre, significa che si attribuisce loro poco valore; e se una cosa ha poco valore si può giustificare che costi poco e venga pagata poco.

Lo dimostrano i contratti con la P.A. che non recepiscono i rinnovi contrattuali (per la cooperazione sociale ben 2 nel corso degli ultimi anni senza che questo abbia determinato un aumento delle rette/tariffe o dei corrispettivi); lo vediamo quando ci troviamo ancora a dover spiegare a un funzionario che il costo del servizio non è dato dalla somma del costo delle ore di personale, perchè le cooperative sociali, al pari delle altre imprese, sopportano altri costi; e infine il valore dato al welfare lo vediamo nelle gare bandite “apparentemente” secondo il criterio dell’Offerta Economicamente Più Vantaggiosa ma che poi adottano una formula per la parte economica che di fatto premia il criterio del massimo ribasso.

Questa è la realtà in cui si trovano a dover operare molte cooperative sociali, questo il motivo per cui pur applicando integralmente il CCNL, facciamo fatica ad offrire stipendi più adeguati, soprattutto in un momento in cui i costi dell’energia e del gas, nonché degli alimentari pesa in modo spropositato anche sul bilancio delle nostre imprese.

Inoltre, nonostante il mantra ricorrente e reiterato della necessaria “integrazione socio-sanitaria” l’impressione è che si remi, consapevolmente o inconsapevolmente, verso il mantenere questi sistemi separati, perché si continua a pensare che il sapere medico, sanitario, l’approccio clinico sia migliore, più adeguato e più importante di qualunque altro sapere.

Abbiamo sistemi di regolazione dei servizi (accreditamenti socio sanitari e sociali) disegnati oltre 20 anni fa e che oggi mostrano la corda alla pressione dei bisogni; sistemi che hanno ingabbiato il “prendersi cura” in procedure e prestazioni, suddiviso funzioni in base alla laurea, introdotto limitazioni nel fare a seconda del titolo di studio acquisito, parcellizzato il percorso di cura nella somma di tante azioni che devono essere dettagliate singolarmente, aumentando tra l’altro a dismisura burocrazia e formalità amministrative.

Sia chiaro, non voglio assolutamente dire con questo che chiunque possa fare tutto o che le professioni con le loro specialità non siano un elemento di qualità, tutt’altro; ma credo sia venuto il momento di provare a disegnare la qualità dei servizi partendo più dagli esiti che producono piuttosto che solo dagli standard gestionali e strutturali.

È così impossibile definire una valutazione degli esiti? Dire che valuto un servizio o un’attività in base, ad esempio, alla maggiore autonomia raggiunta dalle persone? alla loro maggiore capacità di avere relazioni non più conflittuali o aggressive con gli altri? al fatto che tornano o continuano a studiare ed andare a scuola? al fatto che non tornano a delinquere? al fatto che si danno da fare per cercare un lavoro? che riescono a muoversi autonomamente in città o nel quartiere, che si fanno degli amici? che tornano ad esprimere volontà e desideri? che stanno meglio di quando hanno avuto accesso al servizio?

E allora possiamo anche dire che non è poi così determinante definire se questi risultati positivi sono stati raggiunti grazie alla figura di un infermiere o di un educatore SNT/2 o L19, o di un assistente sociale, o di uno psicologo, o di un laureato in filosofia, o di un operatore che non ha una laurea ma ha una capacità fenomenale di entrare in empatia con la persona e di essere un efficace accompagnatore e stimolatore di potenzialità?

Già esistono esperienze simili; alcuni dei migliori percorsi di attuazione del “Dopo di Noi” (Legge 112/2016) sono lì a dimostrare che è importante il ruolo svolto da un infermiere o da un educatore tanto quanto (non di più, ma nemmeno di meno) del vicino di casa, del badante, del volontario, di chi affitta l’appartamento, di chi fa teatro o musica o sport ….

E chi esercita una professione (educatore, infermiere, etcc..) svolge il ruolo di case manager, facendo in modo che tutti questi saperi e queste competenze lavorino in sinergia e in modo complementare per assicurare e garantire alla persona le migliori condizioni perché possa esprimere al meglio le proprie capacità per realizzare i propri desideri.

È un lavoro non meno faticoso e carico di responsabilità, ma certo più gratificante, più motivante, più capace di valorizzare insegnamenti e competenze acquisti negli studi.

Le università, dal canto loro,negli ultimi anni hanno moltiplicato i corsi di laurea, andando a costruire percorsisempre più specialisticie parcellizzati,dedicati a “pezzi” di vita, “pezzi” di utenti,ma spiazzanti in relazione al mondo del lavoro dove lepropriecompetenze dovranno essere messe alla prova. Le università non hanno legami con gli operatori del settore sociale, socio assistenziale e socio sanitario, riferendosi al massimo a enti pubblici che da anni non gestiscono più servizi. C’è un patrimonio di sapere e di conoscenze che si è costruito nella pratica operativa e professionale, delle cooperative e non solo, che non trova riconoscimento accademico. La mancata comunicazione e collegamento tra il mondo della formazione accademica e quello della pratica professionale, finisce per scontentare tutti. Il professionista, perché si aspettava che la sua professione fosse altro, l’impresa che si aspettava un professionista più capace di agire nella realtà.

Oggi le competenze necessarie sono quelle relative alla gestione della complessità, alla capacità di avere approcci e sguardi trasversali, di ricomporre conflitti, di connettere risorse, di saper leggere e interpretare il contesto (familiare, sociale, ambientale, culturale), di mantenere legami comunitari, di creare e rafforzare relazioni di fiducia tra le persone, di alimentare la solidarietà e la reciprocità tra simili e tra diversi.

La realtà osservata nei percorsi di cambiamento resisi necessari per fronteggiare la pandemia ci suggerisce che nelle nostre comunità, se, da parte di chi gestisce servizi, c’è la volontà di renderle partecipi, si libera un potenziale in grado di contribuire a riqualificare i servizi e gli interventi per accorciare la distanza tra cittadini ed istituzioni. La competenza più preziosa nel welfare è quindi quella di chi è in grado di contaminare culture, visioni, modelli e metodi; quella di chi si apre all’innovazione e alla scoperta, di chi ragiona per risultati da raggiungere piuttosto che per ruoli da inquadrare gerarchicamente. Culture e visioni organizzative arroccate in difesa impediscono alle stesse organizzazioni di promuovere investimenti ideativi, progettuali innovativi, così decisivi e strategici per affrontare il cambiamento e la complessità delle nuove sfide legate alla trasformazione della nostra società.

A complicare le cose, per l’educatore professionale, c’è sicuramente la doppia figura, che pare rispondere a necessità delle diverse università più che ai bisogni delle persone, e che – nella dicotomia tra socio sanitario e socio pedagogico – vede le imprese cooperative e le altre organizzazioni che operano nel welfare lasciate sole nella responsabilità di garantire la continuità dei servizi.

Per questo è urgente trovare un’intesa con Regione Lombardia per rimodulare alcuni requisiti di accreditamento e consentire l’ingresso di professionalità e competenze altre accanto a quelle oggi definite dagli standard; il confronto si è già aperto, speriamo si possa chiudere velocemente e in modo positivo.

In chiusura un auspicio: che “le professioni” smettano la strada delle rivendicazioni corporative che enfatizzano l’interpretazione del welfare come uno dei tanti “mercati”, in cui se la domanda (di lavoro) supera l’offerta (di lavoratori) il prezzo sale; il welfare ha bisogno di maggiori risorse e meglio orientate, non c’è dubbio, anche per poter meglio remunerare che ci lavora. Ma è altrettanto necessario recuperare l’idea che ciò che si agisce verso gli individui, verso i singoli, deve sempre avere una valenza collettiva e comunitaria. Lo scopo del lavoro dell’educatore e della cooperazione sociale non è garantire l’appropriatezza di un servizio ma cambiare la vita della persona e le caratteristiche del contesto in cui vive. Perché il welfare o si fa con la comunità oppure non esiste più.

Valeria Negrini, presidente Confcooperative Federsolidarietà Lombardia

PEGGIO ANCORA CHE DISCRIMINARE È NON RICONOSCERE LA DISCRIMINAZIONE COME TALE

11/5/2022 Fonte: www.superando.it Se un alunno con disabilità si ritrova ad andare in gita scolastica con un mezzo diverso da quello utilizzato dagli amici e dai compagni, questo non è dovuto alla sua disabilità, ma è una responsabilità di chi non ha ancora imparato ad organizzare servizi inclusivi, un aspetto, questo, da sottolineare, in relazione alla vicenda accaduta in una scuola dell’infanzia nella Provincia di Pisa, perché, a valutare dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa locale, i primi a non averlo chiaro sono proprio i soggetti che svolgono una funzione educativa

Dispiace dover raccontare storie di discriminazione, soprattutto se queste riguardano minori con disabilità. Ma c’è qualcosa di peggiore: scoprire cioè che chi ha posto in essere tale discriminazione non la riconosca come tale nemmeno se gliela fanno notare, e invece di scusarsi, come sarebbe decoroso fare, minimizza e si atteggia a vittima. Ma andiamo con ordine.

Ieri ci siamo occupati, su queste stesse pagine, della vicenda di Tommaso, un alunno con disabilità motoria di 6 anni che frequenta l’ultimo anno della scuola dell’infanzia del Comune di Bientina (Pisa). Tommaso, come abbiamo raccontato, è dovuto andare alla gita scolastica organizzata alla Riserva Bosco Tanali nel Padule, a pochi chilometri dalla scuola stessa, con un mezzo diverso dal pullman utilizzato dagli altri amici e compagni. «È impensabile che nel 2022 un Comune non sia attrezzato per il trasporto inclusivo dei bambini disabili», aveva osservato con amarezza la mamma di Tommaso. «Spiace constatare che la scuola, invece di affrontare e risolvere un problema che esiste da anni – aveva aggiunto –, si rifugi in un atteggiamento di comodo non adottando provvedimenti atti ad eliminare gli ostacoli, ma trovando soluzioni lesive della dignità e dello sviluppo psichico del bambino disabile». E che la soluzione trovata sia discriminatoria lo sanciscono innumerevoli norme – tra le quali citiamo, solo a titolo esemplificativo, l’articolo 12 della Legge 104/92 e l’articolo 24 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09) –, oltre a una consolidata giurisprudenza.

La storia in  questione si è arricchita di ulteriori particolari perché il quotidiano «La Nazione» ha opportunamente sentito tutti soggetti chiamati in causa, riportando, oltre alle dichiarazioni della mamma, anche quelle del Sindaco di Bientina – sentito perché il servizio di scuolabus è comunale – e della Dirigente Scolastica (Gabriele Nuti, Scuolabus non attrezzati per disabili. “Mio figlio separato dai compagni”, in «La Nazione», 7 maggio 2022).
«Sono stato informato dalla mamma del bambino la mattina stessa – ha dichiarato il sindaco Dario Carmassi –. Ci siamo confrontati a lungo telefonicamente proprio perché capisco la problematica e dal punto di vista umano sono loro molto vicino. Il dato di fatto è che gli scuolabus sono in questo momento privi dell’accessibilità per i disabili e il trasporto per gli spostamenti all’interno del comune viene garantito da un mezzo parallelo che può trasportare disabili. Non è una situazione che permarrà, perché se i mezzi attuali girano sulla scorta di una gara vecchia di sei anni, la nuova gara che sta per concludersi, garantirà che da settembre operino mezzi scolastici con pedane e attrezzature per disabili. Ho dato disponibilità alla mamma di incontrarci per evitare che in futuro possano ripetersi episodi simili, magari migliorando la comunicazione tra scuola e famiglia con l’aiuto anche del Comune».
Quelle del Sindaco appaiono come parole sobrie e ragionevoli, le parole di chi ha rilevato una criticità, la ammette, esprime vicinanza a chi ha subito una discriminazione, e illustra una progettualità che dovrebbe risolvere il problema.

Molto diversa è invece la postura assunta dalla dirigente scolastica Maria Rita Agata Ansaldi che, interpellata dal quotidiano, ha rilasciato la seguente dichiarazione: «La nostra scuola, come ho spiegato alla mamma, mette al centro l’inclusione, sempre. Il trasporto è offerto dall’amministrazione comunale, ponderato e personalizzato. Il Comune, in casi come questo, affianca lo scuolabus che non ha la pedana per le carrozzine, con un mezzo aggiuntivo attrezzato per il bisogno. In questo caso ha trasportato il bambino con la sua carrozzina, altri due compagni e la maestra. Sarebbe stato oggetto di lamentela, all’opposto, e questa volta giustificato, se non si fosse previsto un accorgimento. In questo caso vorrei davvero esprimere la mia amarezza per un atteggiamento, mi sembra, provocatorio, gratuito e anche offensivo nei confronti di tutto il personale della scuola che non si risparmia per organizzare le attività in un’ottica inclusiva, sempre». Di che si lamenta la famiglia, visto che Tommaso in gita c’è andato? La vera vittima qui è «tutto il personale della scuola». Sic!

Possiamo dedurre che Ansaldi, quando usa espressioni come «inclusione» e «ottica inclusiva», non abbia bene idea di cosa stia parlando. Il che è grave, considerato il ruolo che riveste, ma non irrimediabile, dunque proviamo a spiegarglielo con la figurina qui a fianco pubblicata, confidando che questa possa aiutarla a comprendere.
Quando abbiamo a che fare con soggetti esposti a discriminazione (non solo le persone con disabilità) possiamo assumere diversi atteggiamenti. Un primo atteggiamento è l’esclusione, che nella figurina vede tutti i soggetti uguali (qui rappresentati dai puntini verdi) dentro un grande cerchio (che rappresenta la società), mentre quelli colorati sono sparsi e posti all’eterno del cerchio. Ecco, è importante capire che l’esclusione è vietata, perché costituisce una forma di discriminazione.
Un altro atteggiamento è la segregazione: qui tutti i puntini verdi sono dentro al cerchio grande, mentre i puntini colorati stanno in un cerchio più piccolo posto al di fuori del cerchio grande. Anche la segregazione è vietata, perché anch’essa rappresenta una forma di discriminazione.
Poi abbiamo l’integrazione, con i pallini colorati che anche qui sono dentro ad un cerchio piccolo, ma questo, invece di essere posto fuori dal cerchio grande (la società), è posto al suo interno. In pratica abbiamo una situazione da “separati in casa”, e anche questo non va bene, perché i pallini colorati continuano ad essere trattati da diversi.
Infine abbiamo l’inclusione, raffigurata con un unico cerchio grande nel quale tutti i pallini verdi e colorati stanno felicemente insieme e si mescolano tra loro, la qual cosa è molto bella. Ecco, la circostanza che Tommaso abbia viaggiato con un mezzo separato configura una forma di segregazione e, guardando la figurina, si capisce chiaramente che non va bene per niente.

La vicenda fa tornare in mente le parole di don Lorenzo Milani: «Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono uguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e dobbiamo rimediare» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, postfazione di Alberto Melloni, con uno scritto di Pietro Citati, prima edizione Oscar Moderni, Milano, Mondadori, 2017, pagina 51). Un pensiero che, se applicato al caso in questione, porta ad affermare che se Tommaso viaggia separato e viene trattato da diverso, questo non è dovuto alla sua disabilità, ma è una responsabilità di chi non ha ancora imparato organizzare servizi inclusivi. Una scuola che non conosce cosa sia l’inclusione non la può praticare né insegnare.

Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito la presente riflessione è già apparsa. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.